Il lungo periodo di quarantena ha fatto emergere nuove esigenze dell’abitare (e del co-abitare).
E secondo gli esperti, la parola chiave del futuro sarà una: privacy
Abito. Abitudine. Abitare. Tre parole del nostro linguaggio quotidiano la cui affinità non è solo etimologica ma anche sentimentale. Evocano, infatti, il sentimento della familiarità. Perché abitare significa questo: acquisire delle abitudini in un luogo, noto e che ci appartiene, in cui possiamo sentirci sicuri e a nostro agio. Come quando indossiamo i nostri jeans preferiti. «Ognuno di noi costruisce una routine dentro il proprio spazio abitativo: siamo programmati per farlo perché ci protegge dall’ansia di ciò che non conosciamo e ci fa risparmiare energie mentali che possiamo dedicare ad altro», spiega la psicologa Alessandra Micalizzi, autrice con Tommaso Filighera di Psicologia dell’abitare (FrancoAngeli).
Casa come luogo della sicurezza. E dell’intimità. «Se immaginiamo la società come una specie di palcoscenico, sul quale indossiamo le maschere dei nostri ruoli e recitiamo tutto il giorno – attività che risulta parecchio stressante – appare chiaro perché, quando arriva la sera, proviamo forte l’esigenza di tornare in uno spazio intimo dove toglierci la maschera, metterci comodi, essere noi stessi», spiega l’antropologo Francesco Remotti (l’ultimo suo libro: Somiglianze, Laterza). «L’abitazione è molto importante per la costruzione di sé: è il luogo nel quale ci esprimiamo attraverso la musica che ascoltiamo, i quadri che appendiamo, i libri che leggiamo».
Negli ultimi mesi, però, qualcosa è cambiato. E tutte le teorie sulla casa e l’abitare sono state messe in discussione. Prendiamo l’intimità: solitamente diamo a questa parola una connotazione positiva, ma durante il lockdown, costretti h24 in un appartamento con marito/moglie/figli, ci siamo ricordati che può anche essere una gabbia e generare stress e rancore. «Non a caso gli esseri umani hanno imparato che nella vita è necessario un giusto equilibrio tra intimità e socialità», chiosa Remotti.
I luoghi della memoria
La socialità, a dire il vero, non è mancata del tutto: ha solo cambiato modalità. Per accogliere gli amici, al posto di aprire la porta abbiamo acceso il computer. Nello stesso modo abbiamo dato il benvenuto ai colleghi, ai compagni di scuola e ai professori dei nostri figli. Generando quello che Alessandra Micalizzi chiama “nomadismo parossistico”. «La caratteristica delle popolazioni nomadi è di concentrare l’abitare in poco spazio, al fine di portare la casa per il mondo. Noi abbiamo fatto l’opposto: ci siamo portati il mondo in casa. E, come i nomadi, anche noi abbiamo dovuto ridurre tutto all’essenziale: il rumore, lo spazio, le attività. I diversi mondi che frequentiamo – noi e coloro con cui viviamo – hanno iniziato a convergere dentro le abitazioni incontrandosi, sovrapponendosi. Una gestione complessa dal punto di vista emotivo e pratico, che ha richiesto negoziazione e ridimensionamento. Il bene “immobile” per eccellenza è stato costretto a una mobilità in cui la cucina diventava studio per i compiti dei figli, mentre la camera da letto si trasformava in ufficio per le riunioni su Google Meet», conclude Micalizzi.
Attraverso le videocamere dei nostri computer ci siamo anche esposti, svelati. E la privacy? «Non c’è dubbio: è uno dei grandi temi emersi in questi mesi e influenzerà il modo di progettare le abitazioni in futuro», spiega Stefano Follesa, architetto, docente di Interior design all’università di Firenze e curatore del volume Sull’abitare (FrancoAngeli). «Negli ultimi decenni abbiamo messo in discussione la teoria delle stanze: il corridoio che un tempo garantiva l’accesso ai vari ambienti è scomparso, sostituito da spazi unici e flessibili come i living, da trasformare a seconda delle necessità e degli orari, con l’aiuto di arredi multifunzionali. Durante il lockdown ci siamo resi conto, però, che un salone da condividere può non essere pratico».
È probabile, dunque, che rivaluteremo le stanze: ma per rispondere alle nuove esigenze abitative non sarà sempre necessario costruire muri. Il designer Gianni Veneziano e la moglie Luciana di Virgilio, partner nello studio Veneziano+Team, avevano anticipato i tempi presentando al Salone del mobile 2019 un’installazione dal titolo Words, che ruotava intorno al concetto di abitazione come “cellula di resistenza” rispetto a quanto avviene fuori. Un’idea quasi premonitrice.
«Immaginiamo una casa che si basi sull’alternanza di due concetti: memoria e innovazione. Per cominciare, niente pezzi di design scelti esclusivamente perché di moda. Meglio una lampada appartenuta al papà, la poltroncina della zia, libri che custodiscono vecchie lettere d’amore. Insomma, frammenti della nostra esistenza e della memoria. Da far convivere con soluzioni innovative come la creazione, per ciascun membro della famiglia, di un angolo-rifugio dove sedersi a pensare, leggere, dedicarsi al proprio hobby, lavorare al pc», spiega Gianni Veneziano. «Può trattarsi di uno spazio vicino alla libreria, magari riempita non solo di libri ma anche di disegni, fotografie, ricordi. O di un angolo di un paio di metri quadri da svuotare completamente e arredare con qualche grande pianta “effetto serra”, una poltroncina, un tavolino e una lampada. Luoghi che gli altri membri della famiglia riconoscano come “privati”; ma che chi li vive possa scegliere di rendere pubblici, per esempio durante le videochiamate con i colleghi».
In una nuova concezione dello spazio domestico post-Covid 19 un revival potrebbe avere anche l’ingresso. «È l’ambiente che rappresenta la prima impressione che si ha di una casa quando si entra e l’ultima quando si esce», continua Follesa. «Ed è il luogo in cui riponiamo abiti e oggetti che ci servono per uscire. In futuro avremo l’esigenza di tenervi armadietti nei quali riporre le scarpe e alcuni oggetti legati all’igiene. Spesso si affaccia sul living: ma ora che abbiamo imparato che dobbiamo proteggerci da ciò che arriva dall’esterno, ripristinare un filtro sarà importante».
La riscoperta dei rituali
Casa-rifugio, dunque. Ma anche luogo di riti: come fare il pane. «La riscoperta dei rituali è un altro dei temi importanti emersi in questo periodo», spiega Follesa. «La nostra vita ne prevede di individuali e semplici, come lavarci il viso al mattino; e di collettivi e familiari, come il pranzo di Natale. La fretta con cui c’eravamo abituati a vivere non ce ne consentiva molti di più. Durante il lockdown, però, abbiamo avuto l’opportunità di riscoprire il valore del tempo, da riempire con rituali domestici come fare il pane». Secondo Alessandra Micalizzi, il fatto che in molti abbiano scelto di tornare a “mettere le mani in pasta” non è casuale. «È emerso un bisogno di tornare all’essenziale: impastando ingredienti semplici come acqua e farina si è voluto volgere uno sguardo al passato, fermarsi, fare un respiro, riscoprire la piccola comunità della casa, che però si collega a una più grande, attraverso le ricette della nonna o quelle della tradizione».
Anche questa nuova abitudine acquisita potrebbe suggerire un cambiamento nel modo di distribuire gli spazi domestici? «Partendo dalla nostra esperienza familiare penso di sì», risponde Veneziano. «In questo periodo mi sono potuto concedere il lusso di cucinare due volte al giorno. Questo mi ha portato a riflettere sulla cucina di casa nostra che, sebbene si possa “chiudere”, è affacciata sull’area living. Ecco, forse in futuro potrebbe essere più funzionale uno spazio chiuso con delle porte, da poter totalmente “isolare” tra un pasto e l’altro se non si ha il tempo per occuparsene», suggerisce Veneziano.
Uno sguardo all’esterno
Anche il rapporto tra spazio interno ed esterno è emerso prepotentemente, in questo periodo: avere un terrazzo o un piccolo giardino ha costituito la salvezza per molti, specialmente per le famiglie con bambini. E la riscoperta di ogni spazio non costretto tra quattro mura è andata di pari passo con il bisogno di trovare un nuovo modo per comunicare con il mondo, in particolare con i vicini di casa, che sono stata un’altra scoperta di questo periodo. «Si è avviata una risemantizzazione degli spazi di confine come i terrazzi e le finestre, diventati preziosi per creare un contatto distanziato e sicuro. I balconi, in particolare, si sono colorati di messaggi di solidarietà, sono stati resi abitabili, sono stati vissuti con applausi, canti. È stato un modo per dire: siamo distanti, ma uniti», dice Micalizzi. E abbiamo anche ricominciato a occupare i cortili condominiali, attività che era passata di moda. Proprio come fare il pane.
In casa, ma in compagnia
Non è possibile, viene però da domandarsi, che dopo mesi di clausura si finisca per provare antipatia per la casa, cercando di starvi il più possibile lontani? «No, penso che i cambiamenti avvenuti in questi mesi si trasformeranno in tendenze di lungo periodo: sia perché ci è chiaro che ciò che è accaduto potrebbe succedere ancora; sia perché alcune scoperte che abbiamo fatto si sono rivelate piacevoli e vorremo mantenerle», riflette Follesa. «In Italia abbiamo una tradizionale propensione all’incontro negli spazi urbani, dalle piazze ai bar, ai ristoranti. Ma credo che cambieremo il nostro lifestyle e cominceremo, gradualmente, a rivalutare la casa come luogo della socialità. Forse in una prima fase inviteremo solo gli altri membri della famiglia. Poi, man mano, apriremo le porte agli amici più fidati, fino ad arrivare a includere una socialità più ampia. Il che, da un punto di vista progettuale, vorrà dire ripensare arredi e spazi tenendo anche conto delle esigenze di una nuova prossemica. Infine, non dimentichiamo che molti rapporti in questo periodo si sono sviluppati in rete: e io non credo che questa modalità, che si esperisce in casa, verrà abbandonata del tutto». Le sfide sono tante, dunque. E saranno da accogliere come occasioni preziose: di riflessione, evoluzione, cambiamento.
fonte sito elle.com